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Ad essere onesto comincio a pensare che abbia ragione Papa Francesco quando sostiene “Viviamo in una terza guerra mondiale a pezzi”.
Già perché noi giustamente siamo concentrati sull’Ucraina e adesso su Gaza, perché ci sono abbastanza vicine, ma perdiamo inevitabilmente una visione di insieme, e dimentichiamo che, in una “mistica di distruzione”, focolai di guerra sono presenti in Siria, in Yemen, in Myanmar, ed in Sudan, Stato su cui voglio soffermarmi oggi.
Come è mia abitudine, ritengo prima di tutto indispensabile inquadrare il problema dal punto di vita geo-politico, partendo dalla cartina geografica (che è diventata la grande dimenticata nella scuola di oggi).
E così, guardando il Continente africano, ci rendiamo conto che il Sudan è una Stato che sta nella parte orientale, esattamente sotto l’Egitto, che confina con l’Eritrea e l’Etiopia, con il Sud Sudan, con la Repubblica Centrafricana, con il Ciad, con la Libia, e che ha anche un affaccio sul Mar Rosso.
Poiché noi utilizziamo per le carte geografiche le proiezioni di Mercatore, che distorcono le reali dimensioni dei grandi continenti, noi non abbiamo l’idea esatta di quanto siano estesi gli Stati africani.
Un esempio è proprio il Sudan, che è grande quanto Francia, Germania, Spagna, Polonia, Inghilterra sommate assieme.
E pensate che nel 2011 si è costituito come Stato indipendente il Sud Sudan, essenzialmente cristiano ed animista, staccandosi dal Sudan musulmano dopo cinquant’anni di guerre e massacri.
Le due entità statuali unite erano di fatto estese come tutta quella che noi definiamo Europa occidentale.
Inquadrato geograficamente il Sudan, passiamo alla politica.
Fino al 2019 questo Stato venne considerato un esempio di transizione democratica pacifica (del tutto inusuale in Africa), grazie alla “rivoluzione gentile” che portò alla detronizzazione di Omar-al-Bashir, uno dei peggiori despoti dei tempi moderni.
I due uomini forti del nuovo Sudan erano il Generale Mohammed Hamdan Dagalo detto Hemedti, che guida le milizie delle Rapid Support Forces (Rsf), ed il Generale Abdel Fattah al -Burhan, alla testa dell’esercito regolare.
Gli accordi prevedevano che, dopo la rivoluzione, le due compagini militari dovessero confluire in una forza armata unica, agli ordini del primo governo interamente formato da civili.
Ma Hemedti e al-Burhan, sodali quando c’era da abbattere Al Bashir, quando si è trattato di fare un passo indietro, o almeno di lato, nel 2021 hanno pensato bene di scatenare una guerra civile fra di loro.
Un conflitto particolarmente cruento che, finora, ha determinato la morte circa di 7500 persone (ma i calcoli in questi casi sono sempre piuttosto approssimativi e per difetto), ha provocato più di 6 milioni di sfollati interni, oltre ad aver decimato infrastrutture già carenti, e la chiusura dell’80% degli ospedali del paese.
La violenza, con i consueti stupri su base etnica, si è inevitabilmente estesa anche alla regione occidentale del Darfur (già teatro di un genocidio nel 2003), dove gli attacchi a sfondo etnico da parte di RSF e delle milizie alleate hanno innescato nuove indagini da parte della Corte penale internazionale su possibili crimini di guerra.
Questo conflitto senza quartiere ha avuto anche un’altra conseguenza terribile.
Infatti fino alla fine del 2022 il Sudan è stato il luogo di approdo di tantissimi profughi provenienti da Paesi limitrofi in guerra, in condizioni disperate o in situazioni di instabilità, come la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan o il Ciad.
Ora è il Sudan ad essere divenuto il Paese dell’esodo e della fuga, con oltre sei milioni di individui costretti a lasciare le proprie case dall’inizio del conflitto, di cui 1,3 milioni quelli che hanno varcato le frontiere, in gran parte verso il Ciad (circa 530mila), il Sud Sudan (370mila), e l’Egitto (350mila).
A questo punto però si deve necessariamente ampliare lo sguardo oltre il Sudan, perché ricordate sempre che per poter combattere una guerra civile servono risorse, che in altre parole significano munizionamenti e logistica.
Quasi mai questi eserciti africani, o queste milizie, spesso reclutate ed organizzate su base etnica o addirittura tribale, hanno i mezzi per uno scontro prolungato, e di conseguenza entrano in ballo forze e potenze straniere.
Per di più l’Africa è ricca di materie prime, e quindi sostenere una o l’altra delle parti in lotta diventa un investimento economico, oltre che politico e strategico.
Non meraviglia quindi se, anche qui in Sudan, dietro i due contendenti si muovano più o meno sotterraneamente numerose potenze straniere.
In appoggio alle Rsf di Hemedti ci sono gli Emirati Arabi Uniti, varie truppe arabe e, soprattutto i mercenari di Wagner, e quindi la Russia.
Non perdete di vista il fatto che i miliziani di Mosca sono già dislocati in Libia, in Repubblica Centrafricana e molto probabilmente in Ciad, e quindi sono in grado di offrire armi, munizioni e continui rifornimenti.
Perché i russi investono in questa guerra?
Sicuramente per estendere la propria influenza in Sudan, per continuare a gestire in proprio lo sfruttamento delle miniere d’oro, e anche per aprire la strada all’installazione di una base navale di Mosca sul mar Rosso, da sempre molto desiderata dal Cremlino.
A sostenere il cosiddetto “esercito regolare” c’è invece solo l’Egitto, il cui aiuto in armi è però molto più sporadico rispetto agli altri.
E gli occidentali cosa fanno?
Gli Stati Uniti, che ovviamente sono presenti in quest’Area, come in ogni parte del mondo arabo ed africano, stanno cercando assieme all’Arabia Saudita di mediare fra le parti per fermare i massacri, evitare ulteriori divisioni, e magari trovare anche una soluzione definitiva al conflitto.
Non sembra che al momento quest’azione stia dando qualche risultato tangibile.
L’Europa, come ultimamente sta succedendo sempre più di frequente nello scenario africano, sembra essere del tutto fuori dai giochi, anche se l’impressione è che non voglia interrompere completamente i contatti con le RSF, che al momento sembrano prevalere sul campo.
Inutile pensare all’Onu, che teoricamente avrebbe l’autorità per agire, perché in quel guazzabuglio sembra rincorrere l’immobilismo dell’Unione Africana.
Alla fine a pagare come sempre sono le popolazioni locali, perché nel bene e nel male i militari mangiano e bevono, mentre l’ottanta per cento delle infrastrutture sanitarie del Paese è chiuso e, secondo il Programma alimentare mondiale (Pam) sei milioni di sudanesi “sono ad un passo dalla fame”.
A questo punto sapete qual è il rischio che più preoccupa?
L’aumento delle probabilità, a fronte di uno stallo della crisi e della situazione sul campo, che il Sudan venga stabilmente diviso al suo interno in zone di influenza, ciascuna controllata di fatto da un “Signore della guerra”.
La stessa situazione che abbiamo visto crearsi in Libia dopo la violenta messa fuori gioco di Gheddafi, uno dei peggiori errori dell’Occidente, di cui stiamo ancora pagando le conseguenza in termini di instabilità dell’area e di flussi migratori incontrollati.
In conclusione, si far per dire ovviamente, mi sembra evidente che il mondo stia diventando sempre più uno scenario globale dove si esercitano le brame di potere e di materie prime, nonché i nuovi colonialismi, delle grandi potenze, che si servono spesso dei popoli inermi per combattersi per interposta persona. Da non trascurare che ogni conflitto, oltre che consentire di sperimentare l’efficacia di nuove armi, insegna qualcosa di nuovo agli Stati Maggiori delle grandi potenze quanto a tattiche e strategie.
Parlare di pace guardando ai focolai di guerra diffusi un po’ ovunque, ed alimentati dai “grandi del mondo” sembra quasi un prenderci in giro.
Forse, come ho detto all’inizio, ha ragione il Papa, con la speranza però che questi scontri non costituiscano le prove generali per uno showdown finale.
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