Il popolo turco ha votato per la democrazia

di Umberto Baldo

Mario Draghi ebbe a definire il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, “il dittatore del quale abbiamo bisogno”, e di fatto questa definizione era un palese riconoscimento al ruolo che Erdogan  sta giocando da anni in politica estera, spaziando dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina, a quella fra Israele ed i Palestinesi di Gaza,  alla Libia, passando per l’Azerbaijan, e per finire lungo i suoi confini Sud, in Siria e Iraq, contro i suoi nemici storici: i curdi del PKK.

Non ho alcun dubbio che nella testa del nuovo  Sultano c’è l’idea di restaurare l’Impero Ottomano, con un’influenza su tutto il Mediterraneo Orientale fino alla Libia, dove già controlla la politica e i giacimenti di Tripoli, e da dove può  ricattare l’Europa aprendo e chiudendo il passaggio dei migranti dai due punti principali di partenza, così come fece con la Grecia nel marzo 2020.

Certo non inserirei Erdogan nell’elenco degli uomini politici che spiccano per l’agire democratico, e le repressioni contro avversari politici e popolo curdo ne sono la testimonianza, però è altrettanto vero che non si regge a lungo come ha fatto lui senza avere il consenso del popolo.

Ed al riguardo il suo ‘palmares’ parla chiaro: all’attivo cinque elezioni parlamentari, due elezioni presidenziali, tre referendum e un colpo di stato sventato.  Non è poco!

Oltre tutto c’è da riconoscere che, magari non saranno state elezioni del tutto cristalline, ma in Turchia si è pur sempre votato, e anche se a trionfare è stato quasi sempre Erdogan ed il suo Partito, l’opposizione ha comunque potuto battere qualche colpo, anche interessante.

La storia insegna che arriva sempre, sotto tutti i cieli e per tutti i regimi, il momento della verità.

E questo momento per la Turchia potrebbe essersi materializzato con le elezioni amministrative dello scorso 31 marzo, che, chissà, potrebbe diventare una data storica.

Erdogan è un politico attento, e sapeva bene che il voto per il rinnovo delle municipalità di tutte le 81 province della Turchia era l’equivalente delle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. 

Certo il risultato non avrà alcun effetto diretto sull’assetto del Governo centrale, ma sicuramente rimodellerà le dinamiche politiche interne del Paese.

Ma veniamo ai risultati.

Il Partito popolare repubblicano (CHP) di centrosinistra ha ottenuto 37,8%   dei voti nazionali, infliggendo un duro colpo al presidente Recep Tayyip Erdoğan ed al suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) al potere, che ha ricevuto il 35,5%.

Ma al di là del dato numerico, già eclatante, ancora più importante è che i sindaci della cogenerazione governeranno ora 35 delle 81 province della Turchia – comprese le dieci aree metropolitane più grandi – con una popolazione totale di 53 milioni di abitanti. 

Al contrario, l’AKP ha vinto solo in 24 Province, che rappresentano 19,5 milioni di persone.

Questi i dati, incontestati, e sui numeri c’è poco da discutere.

E questi numeri dicono senza tema di smentite che l’AKP, il partito del presidente Erdogan, ha subito la peggiore sconfitta degli ultimi 20 anni

Il CHP, il partito repubblicano, di ispirazione laica, ma fortemente nazionalista (e sottolineo NAZIONALISTA), ha confermato il controllo delle principali città del Paese, tra cui Ankara ed Istanbul, conquistando località un tempo a forte maggioranza AKP, come Manisa e Bursa, uno dei maggiori centri religiosi del  Paese.

La ‘marea rossa’ del CHP, che diventa la prima forza politica del Paese, non è l’unico dato interessante di queste elezioni, in quando  nel sud-est i curdi si sono riconfermati alla guida di tutta l’Anatolia sud-orientale, esclusa la provincia di Siirt, con percentuali intorno al 60% (nel sud-est della Turchia, il Partito filo-curdo per l’uguaglianza e la democrazia, nonostante anni di repressione che hanno visto i sindaci curdi rimossi e sostituiti con esponenti dal governo, e migliaia di attivisti politici arrestati, ha conquistato 10 province)

Do per scontato che da ora in poi non si possa più fare finta che i Curdi non esistano politicamente in Turchia.

Credo che il segnale politico per Erdogan ed il suo Partito non potrebbe essere più chiaro: il Presidente da solo non basta più a sostenere i consensi di un partito spogliato negli anni dei suoi elementi migliori proprio dal capo dello Stato turco, che lo ha monopolizzato.

Certo andando alle cause della dèbacle, fra queste c’è stato anche il persistente malessere economico della Turchia. Erdoğan e l’AKP stanno finalmente sperimentando le conseguenze di politiche macroeconomiche sconsiderate, che hanno alimentato l’inflazione e colpito la lira, erodendo il potere d’acquisto della maggioranza dei turchi. 

Ciò è stato più visibile nelle aree metropolitane della Turchia, dove i lavoratori sono più esposti al ciclo economico, e la rabbia per le crisi economica ha indotto proprio gli elettori dell’ AKP a disertare le urne. 

Altro dato che valuto importante per il futuro della Turchia è l’emergere di Ekrem İmamoğlu, sindaco del CHP di Istanbul, come leader naturale dell’opposizione politica.

È stato facilmente rieletto con il 51% dei voti, battendo Murat Kurum, il candidato dell’AKP, con un margine di 12 punti percentuali. 

Ciò è tanto più impressionante se si considera che la campagna di Kurum ha beneficiato del coinvolgimento personale di Erdogan, di una copertura mediatica distorta, e di altri vantaggi da parte del Governo. 

Tenete presente che, dopo aver fallito nelle elezioni presidenziali e parlamentari dello scorso anno, l’ampia alleanza di opposizione che sosteneva l’allora leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu nella sua corsa contro Erdoğan, si è frammentata, e ciascun partito ha schierato il proprio candidato alle elezioni locali di domenica scorsa. 

Un campo così pieno ha aumentato la posta in gioco per i sindaci in carica nelle aree controllate dall’opposizione. 

Ma molti di loro hanno superato questo ostacolo facendo appello direttamente a tutti i segmenti dell’elettorato dell’opposizione nelle loro circoscrizioni elettorali. Ed è evidente, sulla base dei loro impressionanti risultati,  che İmamoğlu e Mansur Yavaş, il sindaco in carica del CHP di Ankara, la capitale, hanno chiaramente saputo attirare elettori esterni al loro partito.

Quali potrebbero essere le conseguenze di questo passaggio elettorale?

Nel breve termine, l’esito delle elezioni probabilmente impedirà all’AKP di tentare di modificare la costituzione turca una seconda volta  per estendere il mandato di Erdoğan oltre il 2028.

Inoltre, la clamorosa sconfitta dell’AKP getta un’ombra sul futuro del programma di aggiustamento economico del Paese, avviato un anno fa  (il rallentamento economico innescato dai massicci aumenti dei tassi di interesse,  e dalla politica fiscale conservatrice, ha quasi sicuramente contribuito al disincanto degli elettori dell’AKP), anche se questo boccone amaro resta indispensabile, e dovrà essere somministrato almeno per un certo periodo di tempo.

Pur con tutte le incognite derivanti dell’attuale situazione politica mondiale, io credo che la democrazia turca potrebbe essere la vera vincitrice del voto di domenica.

L’elettorato turco ha dimostrato ancora una volta il suo profondo attaccamento  alla democrazia multipartitica, e la sua fiducia nella prospettiva di un cambiamento democratico. Nell’ultimo decennio, il Paese ha senza dubbio sperimentato un significativo grado di arretramento sotto la forte presa di Erdoğan. 

Ma domenica i turchi hanno dimostrato perché la Repubblica turca, entrata nel suo secondo secolo, è saldamente ancorata al mondo democratico.

E questa, consentitemi, rappresenta almeno per me una bella notizia, nonché una speranza per il mondo libero

Pubblicato da Massimo Masi

Blog di Massimo Masi. Bolognese di nascita, piantato nella pianura, con una forte propaggine verso il mare. Non sono più quello di ieri, non so come sarò domani. Ma posso dirti come sono oggi, con i miei ieri (Alda Merini)

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