C’è ancora domani

Foto tratta dal web

In questo articolo sono presenti commenti. I commenti li trovi alla fine del post. Se non li vedi clicca su Mostra Commenti


di Umberto Baldo

Ne avevo sentito parlare, avevo letto commenti e recensioni, e di conseguenza ieri sera, epilogo della giornata di Pasqua, ho visto su Netflix il film “C’è ancora domani” diretto ed interpretato da Paola Cortellesi.

Raramente indulgo nello scrivere recensioni di un libro o di un film, ma stavolta faccio un’eccezione, per un motivo apparentemente banale; la pellicola è bella e suscita emozioni.

Non mi faccio abitualmente condizionare dal successo al botteghino, ma devo dire che aver appreso dei 37 milioni di incasso, che lo hanno trasformato nel film più visto dell’anno e nel nono di tutti i tempi;  che in Francia, dove è uscito a metà marzo con il titolo Il reste encore demain, è stato accolto benissimo (il pubblico lo ha potuto vedere sia in lingua originale con sottotitoli, ma anche in versione doppiata, circostanza molto rara in Francia); che  il film sarà nelle sale inglesi e irlandesi dal 26 aprile con il titolo There’s still tomorrow, mi ha senz’altro incuriosito.

Quindi serata di Pasqua davanti al grande schermo (senza frittatona e rutto libero eh) per vedere questa opera prima della Cortellesi regista.

Che dire?

Non è un film che abbia una trama articolata da raccontare, ed io l’ho percepito quasi come un affresco di un periodo ben preciso della storia del nostro Paese, ma che fa riferimento a temi universali, ben presenti anche nel nostro mondo, e che induce sicuramente alla riflessione.

Innanzo tutto dove e quando si svolge la storia?

Siamo nel 1946, alla fine della seconda guerra mondiale, in una  Roma ancora occupata dalle truppe alleate, identificate dei protagonisti genericamente con gli “americani”.

Un’Italia, ed una città, appena uscite dall’incubo della devastazione e della paura, in cui, rigorosamente “in bianco e nero” (scelta precisa della Cortellesi, forse per richiamare i  grandi film del neo-realismo, o magari semplicemente per una scelta estetica legata al periodo storico), vive una famiglia che con le categorie marxiste definiremmo “proletaria”, inserita nel contesto di un rione popolare, di quelli un po’ “caciaroni” che abbiamo visto tante  volte nei film  dei De Sica, dei Rossellini, dei Germi. 

La protagonista assoluta è Delia quella che all’epoca si sarebbe definita una “brava donna di casa”.

Delia tiene il suo sottoscala pulito, prepara i pasti al marito Ivano e ai tre figli, accudisce come una badante il suocero Ottorino, scorbutico e allettato, e guadagna qualche soldo rammendando biancheria, riparando ombrelli e facendo iniezioni a domicilio.

Questo è il suo modo, fatto di lavoro, di fatica, ma soprattutto di umiliazioni.

Apprendiamo nel corso del film la filosofia che sta dietro ai maschi di casa, spiegata bene dal suocero,  secondo il quale Delia è sì una brava donna ma “ha il difetto che risponde“, in un’epoca in cui alle donne toccava tenere la bocca ben chiusa. 

E alla scorta di questa concezione dei rapporti uomo-donna il marito  Ivano ritiene sacrosanto riempirla di botte e umiliarla per ogni sua “mancanza”.

Direi che è questo il punto centrale della narrazione della Cortellesi, che concentra nei personaggi di Ivano e Delia l’ingiustizia di un sistema patriarcale di cui anche Ivano sembra  in qualche momento vittima, oltre che perpetuatore.

In questo tran tran fatto di botte gratuite e violenze spicce, si inserisce la figlia Marcella che  sta per fidanzarsi con il figlio del proprietario del Bar del quartiere; il che le darebbe la possibilità di migliorare il suo status e allontanarsi dalla condizione arretrata in cui vive la sua famiglia, nonché da quella madre sempre in grembiule e sempre soggetta alle angherie del marito.

Questa è anche la speranza di Delia, che spera per Marcella un futuro migliore e fa la cresta ai suoi magri guadagni (che vanno consegnati al marito-padrone) per comprarle un abito da sposa nuovo, e non riadattando quello servito per il suo matrimonio, come vorrebbe Ivano. 

Delia in realtà non è isolata; per fortuna ha qualche alleato che capisce come viene trattata in casa: un meccanico che le vuole bene, un’amica spiritosa che la incoraggia, un soldato afroamericano che vorrebbe darle una mano. 

E soprattutto, ha un sogno nel cassetto, sbocciato da una lettera ricevuta a sorpresa, che la regista non ci dice volutamente cosa contiene, se non nelle ultime scene.

Qui sono obbligatoriamente costretto a fermarmi, perché è questa lettera che alla fine darà un senso pieno al film, e non voglio togliervi la sorpresa qualora decideste di vederlo.

In conclusione, io ho molto apprezzato il film della Cortellesi, che  tra trovate registiche interessanti e una sceneggiatura d’impatto, la regista riesce perfettamente a riattualizzare questioni più che mai urgenti. 

La pellicola porta a riflettere, con grande arguzia, su temi quali la violenza di genere, l’autodeterminazione femminile e la libertà.

Non escludendo temi sociali quali il lavoro delle donne.  Delia percepisce uno stipendio molto inferiore rispetto a quello del ragazzo appena assunto e, quando chiede al suo capo spiegazioni in merito, riceve una risposta lapidaria: “perché lui è omo”.

Inquadratura dopo inquadratura si scopre tutto questo, e gli sguardi crudeli e la gravità dei gesti con cui Ivano maltratta la moglie restituiscono accuratamente il clima di tensione  cui Delia viene sottoposta ogni giorno. 

In questo senso Ivano è il perfetto specchio del patriarcato che ieri, come oggi, non ha cambiato il suo modus operandi: la donna deve obbedire e “se deve  stà zitta!”

Inevitabile durante ed alla fine del film non pensare che le  dinamiche patriarcali proposte da Ottorino e Ivano ci sono anche là fuori, nel mondo di tutti i giorni, nel nostro mondo. 

Nel mondo delle Giulia Cecchettin e delle tante donne che muoiono uccise dai mariti o dai compagni, nel mondo delle mutilazione genitali in Africa ma purtroppo anche nella nostra Europa, nel mondo delle ragazze iraniane impiccate per un velo mal indossato, nel mondo delle donne afgane fustigate pubblicamente, nel mondo dove le donne hanno meno diritti di un asino. 

Tornando al film, la soluzione a questi problemi, lo sa anche la Cortellesi, non sta certamente solo in quella “lettera” e in ciò che essa significa per Delia, ma  sicuramente rappresenta per lei la speranza di un futuro migliore, la speranza che, per lei e per Marcella, “C’è ancora domani”.

Pubblicato da Massimo Masi

Blog di Massimo Masi. Bolognese di nascita, piantato nella pianura, con una forte propaggine verso il mare. Non sono più quello di ieri, non so come sarò domani. Ma posso dirti come sono oggi, con i miei ieri (Alda Merini)

2 Risposte a “C’è ancora domani”

  1. Mariangela Pani (da Facebook)
    Condivido molto questa lettura. Cortellesi ha fatto un film con un potente messaggio sulla condizione della donna nel dopoguerra senza essere noiosa e ripetitiva.. non sono molti i film che raccontano così chiaramente il maschilismo brutale di un’epoca dove invece i maschi o perché combattenti o perché resistenti sono spesso glorificati

  2. Claudio Tramacere (da Facebook)
    Film bellissimo. Cortellesi e Mastandrea grande interpretazione.

I commenti sono chiusi.